Piero Martinetti: sul ruolo della filosofia “nell’ora presente”

 

Piero Martinetti, Il compito della filosofia nell’ora presente. Milano: Bertieri e Vanzetti, 1920.

Il compito della filosofia nell’ora presente esce, come opuscolo, nel 1920 per i tipi di Bertieri e Vanzetti. Nell’immagine è visibile la prima pagina della seconda edizione del testo, apparsa nel 1926 all’interno della silloge Saggi e discorsi, raccolta di lavori martinettiani di varia natura ed epoca (La funzione religiosa della filosofia 1907-La filosofia religiosa dell’hegelianismo 1925).

Il saggio martinettiano intitolato “Il compito della filosofia nell’ora presente”, del quale ci accingiamo a presentare alcune tematiche emergenti, risulta costituito da una serie di tre conferenze tenute dall’autore a Milano nel 1920 e può essere considerato come una sorta di piccolo manifesto. Da un lato per le implicazioni metafisiche in esso contenute, tali da permetterci di penetrare, seppure superficialmente, all’interno di temi che risultano centrali nel contesto della speculazione del filosofo canavesano, e, dall’altro, per la chiara e ben delineata visione dello statuto e del ruolo della filosofia che queste pagine restituiscono. In particolare – possiamo rilevarlo immediatamente – la lettura di questo testo fornisce un’immagine della riflessione di Martinetti sulla società e la funzione  dell’intellettuale in essa, piuttosto differente da quella veicolata da una certa lettura standardizzata (basata soprattutto sull’ultima corrispondenza): Martinetti come un pensatore solitario, isolato e ben poco interessato al contesto politico ed al destino della società. Egli appare qui, al contrario, seriamente impegnato nell’analisi dei problemi e delle cause implicate nella crisi socio-economica dell’Italia e dell’Europa postbelliche.

Uno dei primi elementi da sottolineare di questa trattazione è il fatto che Martinetti, come conseguenza della propria visione idealista trascendente e contro alcune analisi troppo semplicistiche, riconduca le cause dei “mutamenti esteriori”, non primariamente alle condizioni economico-politiche, ma allo stato di profonda crisi morale in cui versa l’intera società. In questo senso, il declino dell'”organismo sociale” non è da imputarsi alla corruzione di una sua singola parte o al malfunzionamento di una sua funzione specifica, piuttosto alla drammatica mancanza di un rinnovamento spirituale e religioso che lo pervada interamente ed intimamente. In altre parole, per Martinetti, il fulcro del problema non sta nei singoli componenti ma nelle “energie ideali che costituiscono la realtà più profonda dell’ordine sociale”.

L’autore, dopo aver citato un passo della Repubblica platonica, del quale enfatizza il tema della vera missione del filosofo: essere di aiuto alla sviluppo della comunità, indica quale sia la domanda che anima il suo lavoro: “quale è e può e deve essere l’azione del pensiero e del fattore ideale nella vita sociale?”.

In qualche modo la risposta è già contenuta nella premessa generale dello scritto a cui abbiamo accennato: il fattore ideale è la forza motrice della società; ed allora – il passaggio è, in quest’ottica, legittimo e coerente – un cambiamento radicale delle sue condizioni sarà possibile solo attraverso un’azione sulle motivazioni profonde che muovono il pensiero e le azioni degli individui, incoraggiando e promuovendo una trasformazione nel campo delle ragioni «ideali», che rappresentano, Martinetti lo ribadisce più volte, il vero ed intimo motore delle nostre scelte.

Ma allora, chiede Martinetti:

Come possiamo dunque lamentarci che il pensiero non penetri e non plasmi la nostra vita sociale? E per qual ragione vi possono essere età, come la nostra, nella quale tutti quelli che non sono acciecati da interessi o da preconcetti sentono più acutamente che mai il bisogno di un rinnovamento ideale della vita? E quali sono le vie ed i mezzi per giungervi? A tutte queste domande noi potremo rispondere solo se affronteremo la questione nei suoi principi e nelle sue connessioni con i problemi filosofici fondamentali: soltanto così potremo vederne nitidamente il senso e la portata e metterne in piena luce le conseguenze.

La forte connessione introdotta tra contesto sociale e visione filosofica, da intendere come fattore decisivo per la determinazione dei moventi e, conseguentemente, come unico spazio d’azione possibile per un rinnovamento, costringe Martinetti a tratteggiare una serie di problematiche metafisiche ed a presentare, in forma piuttosto concisa e non completamente svolta dal punto di vista formale, la propria posizione filosofica. Sebbene concentrate in poche pagine, le schematiche osservazioni dell’autore ci permettono di accedere ad alcuni punti capitali del suo pensiero.

Prima di tutto, elemento tipicamente martinettiano, troviamo l’idea che sia il metodo sintetico e non quello analitico a caratterizzare l’indagine filosofica e, più in generale, tutte le forme del sapere umano, comprese quelle scientifiche. La dimostrazione logico-deduttiva, all’interno di questa prospettiva, è solo un aspetto secondario; primario e fondamentale risulta essere invece il momento della “visione geniale”, dell’intuizione della nuova verità. La conoscenza (una nuova conoscenza) non è ottenibile attraverso una passiva riunione di dati e di risultati sperimentali – che tutt’al più può costituire una forma, più o meno sterile, di erudizione – ma grazie al raggiungimento di un punto di vista che sia, rispetto a quei dati, dai quali è ad ogni modo necessario partire, completamente nuovo, o che comunque rappresenti uno scarto rispetto alla mera scomposizione analitica dei dati nei loro elementi costitutivi. La sintesi, intesa appunto come momento veramente originale e quindi genetico della conoscenza, è il passaggio necessario per il raggiungimento di sempre nuovi ed elevati gradi di consapevolezza: il lavoro di dimostrazione logica e corroborazione empirica è successivo ed acquista senso solo in relazione al primo atto di sintesi. Una differenziazione questa che, specularmente, troviamo anche a livello delle figure impegnate nel lavoro di ricerca. L’atto della visione sintetica è proprio dei veri protagonisti del progresso scientifico (ma anche morale e religioso): gli “inventori” (o “eroi”, termine utilizzato nell’ambito della simbolizzazione religiosa), le menti geniali che raggiungono forme di concettualizzazione veramente innovative; mentre a livello della determinazione ed applicazione periferica delle nuove verità sono gli “spiriti servili” ad operare, utilizzando la “verità fondamentale” acquisita come una sorta di “dogma”, come se essa cioè non fosse il risultato di un’elaborazione intellettuale ma un dato evidente e non problematizzato da mettere in campo nella concreta pratica scientifica.

Una concezione questa, che dimostra come Martinetti sia attento alle modalità operative delle scienze: non vi sarebbe possibilità alcuna di reale applicazione se ogni conoscenza da verificare fosse perennemente tematizzata e non, in qualche misura, assunta acriticamente. Ma essa ci permette soprattutto di introdurre un altro tema importante presente nella filosofia di Martinetti.

La confusione ed unificazione, scientifico-pratica, della “verità” con il “dato” consente all’autore di evidenziare infatti come in realtà quest’ultimo non sia mai un alcunché di semplice e dato brutalmente alle nostre facoltà, ma, all’opposto, un qualcosa configurantesi come il prodotto del processo di conoscenza stesso e, come tale, soggetto a mutamenti e trasformazioni: “nel fatto entra un fattore puramente spirituale e filosofico: quello precisamente il quale fa sì che il fatto così come oggi lo vediamo non sia più lo stesso fatto dell’osservatore di dieci secoli or sono”. La visione generale (filosofica), in quanto produce gli avanzamenti gnoseologici e quindi nuovi punti di vista, estende sempre di nuovo la sua influenza sui fatti che entrano nel nostro orizzonte conoscitivo: un fatto assoluto allora, inteso come pura datità, non è possibile, in esso è sempre presente un elemento teorico, filosofico, che fa sì che esso venga accolto in un certo e determinato modo. In senso stretto – e ciò, va detto, vale anche nel campo della percezione – non esistono per Martinetti i “fatti” come entità indipendenti dal correlato teorico-coscienziale di riferimento: in ogni campo del sapere una realtà può essere un “dato”, all’interno di un certo grado di elaborazione concettuale, ed, al contempo, un risultato di un’operazione dello spirito in uno stadio di concettualizzazione inferiore rispetto al primo; e un discorso analogo potrebbe essere fatto per tutti i livelli (inferiori e superiori): ogni successivo passo verso la verità – perché di questo si tratta: un continuo ed asintotico avvicinarsi alla forma pura della conoscenza – è un accedere a sistemi gnoseologici di volta in volta più coerenti, comprensivi e perfetti, fondati su strutture concettuali che possono essere, di volta in volta e in modo non contraddittorio, “dati” o “teorie”.

Uno schema, quest’ultimo, che viene utilizzato anche per esemplificare il rapporto tra scienze (operanti su “dogmi” i. e. teorie filosofiche  «cristallizzate») e filosofia:

 Nella scienza di oggi e nel suo modo di apprendere i fatti, vivono, come cristallizzate, teorie filosofiche e mentalità fissate in una specie di disposizione collettiva: ma anche nella filosofia di oggi vive già quella preparazione, quella mentalità che servirà domani a vedere più chiaramente, ad apprendere il fatto in modo più perfetto e più profondo.

Al di là del fatto che un processo analogo deve essere riconosciuto come attivo all’interno dei medesimi processi scientifici, nella separazione tra momento teorico e operativo – non si spiegherebbero altrimenti i continui progressi delle scienze –, il concetto di filosofia (e del suo ruolo) che scaturisce da una simile concezione dei rapporti tra teoria generale e sue  determinazioni è piuttosto chiaro: la filosofia “non è un insieme di soluzioni ma una soluzione unica”; è evidente infatti che, se il momento teorico pervade ogni piccola acquisizione conoscitiva, il tentativo singolo di risoluzione di una, anche specifica e ristretta, questione, richiede l’attivazione dell’intero sistema di riferimento (certo, possiamo specificare noi, in misure e modi differenti secondo il caso), che, a sua volta, viene perturbato dalla nuova esperienza. Allo stesso modo – questo punto è per noi fondamentale – la domanda e la richiesta di cambiamento delle condizioni materiali e spirituali della società deve obbligatoriamente passare attraverso un rinnovamento della posizione filosofica generale. Ciò anche per due ragioni ulteriori: 1) la stretta connessione che lega, in Martinetti “intelligenza” e “volontà” – “la vita pratica dell’uomo è infatti solo la traduzione attiva della sua visione generale delle cose” – e 2) la profonda natura morale e religiosa della filosofia, la quale non è tanto, e comunque non essenzialmente, un complesso di deduzioni astratte, ma la visione “direttiva” che guida ogni creatura pensante (anche gli animali non umani) verso il fine cui essi tendono.

Agostino Gemelli (1878-1959) – psicologo, frate francescano e fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – recensisce, nel 1921, il saggio di Martinetti nella Rivista di Filosofia Neo-Scolastica. Egli si focalizza, dopo un breve riassunto delle tesi contenute, sulla riflessione religiosa del filosofo canavesano, della quale critica il razionalismo. La riflessione martinettiana nei confronti del fenomeno religioso è infatti, per Gemelli, “vaga e inconcreta”, in quanto monca dell'”affermazione positiva” che solo l’accesso finale alla rivelazione cristiana è in grado di donarle. Molte delle premesse di Martinetti, sostiene ancora il recensore, sono assai condivisibili, ma la conclusione, in quanto non ancorata ai dogmi ecclesiastici, è inaccettabile e pericolosa per l’educazione delle giovani generazioni.

Comincia, a questo punto dello scritto, una breve analisi delle due principali teorie della società riconosciute da Martinetti; teorie che ripropongono, nel loro rapporto teorico, lo schema che si è già visto a proposito della relazione tra scienze e filosofia. Se noi guardiamo alla “molteplicità degli elementi e delle forze” implicati nel contesto sociale, ovvero gli attori e le dinamiche ad essi connesse, siamo legittimati a concepire la società come un grande “meccanismo” regolato dalle leggi derivanti dalla struttura interna e dall’obiettivo fissato; mentre, all’opposto, se la società è da intendersi come una entità per sé stante, con un proprio statuto, in certa misura autonomo da quello degli elementi che la compongono, essa si configurerà come una grande unità spirituale, una sorta di “coscienza superiore” che “abbraccia” tutte le individualità e ne fa strumento per la persecuzione del proprio fine.

Le due teorie sono entrambe coerenti e proficue nei loro rispettivi contesti, tant’è vero che i protocolli scientifici costruiti a partire da una concezione meccanicista della società risultano essere strumenti interpretativi efficaci, ma fermarsi a questo livello di considerazione significherebbe non cogliere il senso più profondo innervante le dinamiche sociali: “il meccanismo è soltanto la parvenza […] dell’attività spontanea creatrice”, ed è precisamente questa “vita interiore profonda” il vero ed ultimativo motore di tutto il sistema sociale:

Noi possiamo quindi senza preoccupazioni per un particolare punto di vista che qui non ci interessa, considerare la realtà sociale in quell’unità profonda, che è anche la sua realtà più vera, come la esplicazione di un’energia spirituale, di una volontà che tende, come ogni altra unità spirituale, verso quell’unità assoluta in cui ogni cosa ha il suo fondamento.

Ora, come è possibile che molte coscienze individuali vadano a costituire un’unica entità sul modello di quella prospettata? Martinetti risponde che sono due le cause di un siffatto processo: il diritto e la morale. Dopo aver ricordato alcune teorie classiche sulla nascita della società, il punto su cui l’autore insiste è il fatto che l’azione del diritto non termini ove inizia quella della morale. Nonostante infatti, indubitabilmente, una netta transizione si verifichi, nel passaggio dalla volontà violenta delle leggi all'”armoniosa” accettazione morale dell’alterità, persiste in questo processo una certa continuità e una costantemente operante relazione di influenza. Il diritto infatti non solo ha una funzione “sussidiaria” e “preparatoria” nei confronti della vita morale, ma ne subisce sempre ancora la forza direttiva: le leggi si modificano, contraendo o estendendo le proprie modalità di applicazione, in conseguenza delle nuove richieste e sensibilità morali (e religiose).

Sempre nel 1921, una seconda recensione, ad opera di Giovanni Gentile (1875-1944), viene pubblicata sull’importante periodico La Critica. In essa il filosofo siciliano analizza il testo di Martinetti a partire dai suoi elementi essenziali, focalizzandosi nello specifico su due temi: le soluzioni pratiche proposte per arginare la crisi morale della società e la distinzione introdotta tra idealismo “immanente” e “trascendente”. Per Gentile le soluzioni politiche ed educative avanzate da Martinetti, in diretta connessione con il proprio sistema filosofico, sono prive di interesse, perché contraddittorie ed astratte. Ma è soprattutto nei confronti delle posizioni teoretiche martinettiane che Gentile muove le sue critiche, cercando di mostrare come 1) l’idealismo trascendente sia una filosofia non perfettamente trasparente dal punto di vista teorico e 2) i rilievi e le osservazioni di Martinetti all’idealismo immanente non colgano nel segno.

L’”anima” e il “momento essenziale” della vita di un popolo sono così rappresentati dalla ricerca dell’unità armoniosa dell’accettazione e del riconoscimento del comune destino: l’economia, la politica, il diritto, persino la morale e la religione sono tutti strumenti (ma con una precisa organizzazione gerarchica) che rendono visibile la «tensione» verso questa ricerca. Il compito del filosofo è così importante e così difficile a causa della posizione cruciale in cui si trova, in quanto latore e creatore della visione generale delle cose che determina le modalità di accesso alla conoscenza e, di conseguenza, il movente degli animi, è suo compito precipuo promuovere e rinnovare la via di accesso al fine ricercato e desiderato.

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