Piero Martinetti (1872-1943)

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21.8.1872 (Pont Canavese) — 20.3.1943 (Cuorgnè)

Fu professore di filosofia, in particolare filosofia teoretica e morale; si distinse per essere stato uno dei pochi docenti universitari, nonché l'unico filosofo universitario italiano, che rifiutò di prestare il giuramento di fedeltà al Fascismo. (Wikipedia)

Publications

(links to the Open Commons of Phenomenology)

Spinoza

1987 - , Napoli, Bibliopolis

Scritti di metafisica e di filosofia della religione

1976 - , Milano, Edizioni di Comunità

Hegel

1943 - , Milano, Bocca

Kant

1943 - , Milano, Bocca

Ragione e fede: Saggi religiosi

1942 - , Torino, Einaudi

Gesù Cristo ed il Cristianesimo

1934 - , Milano, Edizioni della Rivista di filosofia

Ragione e Fede: Introduzione ai problemi religiosi

1934 - , Milano, Edizioni della Rivista di filosofia

L'intelletto e la conoscenza noumenica in Kant

1930 - Der russische Gedanke Erg. (1), pp.209-216

La libertà

1928 - , Milano, Libreria Editrice Lombarda

L'Etica: Esposizione e commento

Spinoza Baruch1928 - , Torino, Paravia

Saggi e discorsi

1926 - , Torino, Paravia

Antologia kantiana

Kant Immanuel1925 - , Torino, Paravia

Breviario spirituale

1922 - , Milano, Isis

Prolegomeni a ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza

Kant Immanuel1913 - , Torino, Bocca

Introduzione alla metafisica

1902 - , Torino, Bona

Il sistema Sankhya: Studio sulla filosofia indiana

1896 - , Torino, Lattes

Piero Martinetti nasce, primo di quattro figli, a Pont Canavese il 21 agosto 1872. Si iscrive, su pressione del padre, alla facoltà di Legge dell’Università di Torino, i cui corsi non frequenta che per un semestre, decidendo infine di trasferirsi a quella di Lettere per poter seguire le lezioni di filosofia. Suoi maestri sono, durante questi anni universitari (1889-1893), Arturo Graf, poeta e storico della letteratura, Giuseppe Allievo, pedagogista e filosofo spiritualista, Pasquale D’Ercole, filosofo di formazione hegeliana approdato in ultimo ad una particolare forma di positivismo e Giovanni Flechia, orientalista, comparatista e glottologo. Importante risulta in particolare l’influsso di Flechia e D’Ercole, grazie ai quali, con ogni probabilità, Martinetti indirizza il suo interesse, in questa fase giovanile, verso la filosofia indiana.

Risultato visibile di questo interesse è la tesi di laurea da lui discussa il 12 luglio 1893, Il sistema Sankhya. Si tratta di un lavoro, dal punto di vista del suo apporto agli studi indianistici, inevitabilmente superato ed indissolubilmente ancorato ai risultati della filologia tedesca della seconda metà dell’Ottocento. Tuttavia quest’opera risulta piuttosto importante per la comprensione globale del pensiero martinettiano e per una sua ricostruzione diacronica; in essa infatti si delineano alcuni di quelli che saranno motivi fondamentali dell’intera sua filosofia. In questo breve scritto vi è innanzitutto l’idea che la filosofia sia da concepire nel suo fine e valore pratico, nel suo tentativo di rispondere al tema centrale dell’esistenza umana: la tensione dell’uomo alla felicità. Una tensione che subito fa emergere una dualità profonda tra l’atteggiamento di chi ricerca la felicità nelle cose mondane o in una dimensione trascendente ulteriore, e chi invece, consapevole dell’illusorietà dei beni terreni e di un atteggiamento che individua nella sola realtà ultraterrena la dimensione della felicità, riconosce come fondamentale la continua ricerca del proprio perfezionamento morale come costante tentativo di elevazione spirituale del mondo e della coscienza. In seconda battuta, la sottolineatura dell’autonomia teorica del Samkhya da qualsiasi tipo di sistema dogmatico brahmanico, appare già come la rivendicazione dell’esistenza di un piano religioso determinato solo ed esclusivamente dall’azione della ragione e pertanto indipendente da qualsiasi rivelazione storica.

Tra il novembre del 1894 e l’estate del 1895 Martinetti si trova a Lipsia per un viaggio studio di perfezionamento. Qui Martinetti ha la possibilità di conoscere le dottrine di alcuni pensatori, di rilevanza europea, che segneranno poi profondamente l’intero suo percorso di studi: la psicologia introspettiva di Wilhelm Wundt, la filosofia dell’immanenza di Schubert-Soldern e l’herbartismo di Strümpell. Tornato in Italia si apre per lui una lunga parentesi di insegnamento liceale (1899-1906). Egli, durante questi anni, si dedica, parallelamente all’attività di insegnamento, alla stesura della sua prima grande opera teoretica: l’Introduzione alla metafisica, uscita in prima edizione nel 1902 e ristampata poi nel 1904. Si tratta di un lavoro – la cui seconda parte non vedrà mai la luce, se non in forma di bozza, dopo la morte dell’autore, nel 1976 – di ampio respiro che testimonia, già a partire dal titolo, idealmente connesso con le Einleitungen di Paulsen e Wundt, il fitto dialogo che Martinetti intrattiene con la filosofia europea, in particolare tedesca, a lui contemporanea. L’opera è composta, dal punto di vista metodologico, di due parti, una storica ed una sistematica. Nella prima vengono passate in rassegna le diverse concezioni gnoseologiche e metafisiche che si incontrano nella storia del pensiero occidentale. In queste pagine però non si trova un lavoro storiografico in senso proprio, o meglio non si ritrova quell’impostazione che la tradizione italiana posteriore a Martinetti avrebbe poi preteso da lavori di tal genere; piuttosto esse servono da preparazione per la parte teoretica e da strumento di chiarificazione della genesi dei problemi teorici affrontati poi direttamente.

La teoresi martinettiana emergente in quest’opera si contraddistingue immediatamente come una forma di idealismo. Un idealismo ben lontano però da quello immanente propugnato nel contesto filosofico italiano dominante: si tratta di un idealismo trascendente fondato sul presupposto del valore assoluto dell’intuizione (tanto sensibile quanto intellettuale) e sul riconoscimento di un valore morale e religioso della conoscenza umana. La filosofia è, in questo senso, concepita come processo di graduale liberazione dal mondo: l’intuizione delle forme pure della conoscenza, in qualsiasi ambito, sono indice non solo e non tanto della capacità umana di astrazione, ma della destinazione sovrasensibile della ragione. La teoria della conoscenza è quindi, giocoforza, subordinata ed assorbita all’interno di una visione metafisica della ragione, concepita come continuo ed incessante processo di perfezionamento, che vede, al proprio vertice, le sintesi più alte della religione. Tuttavia non si deve pensare ad una impostazione che sacrifichi o svaluti il piano dell’esperienza: non vi è per Martinetti grado di conoscenza, anche il più semplice ed umile, che non sia già intessuto di elementi formali indicanti chiaramente la presenza di attività razionale. La metafisica non si configura per lui come una conoscenza alternativa, ponentesi su di un piano radicalmente diverso rispetto a quello esperienziale; essa è semmai da concepirsi, sulla scorta di Herbart e Schopenhauer, come scienza della chiarificazione (“deciframento”) dell’esperienza. Il dato fornitoci dai sensi, qualsiasi dato, non è mai un’entità bruta e irriflessa, ma, in quanto è dato a una coscienza, è sempre un elemento composto dai due membri che lo costituiscono: materia e forma. Questa distinzione però è da concepirsi solo in senso logico, come articolazione astratta delle due istanze in realtà inscindibili: soggetto e oggetto, costituentesi correlativamente all’interno dell’unico piano di datità: quello coscienziale. Ogni singolo atto conoscitivo non viene pertanto ridotto – esplicito richiamo a Schuppe ed alla “filosofia dell’immanenza” – all’azione di un supposto mondo esterno sulla ricettività del senso; più propriamente esso è l’attualizzarsi di un contenuto di coscienza, che va indagato e riportato agli elementi razionali in esso presenti. Una concezione, questa della metafisica, assai dinamica ed attuale, che non si chiude in un “sistema aprioristico di deduzioni arbitrarie”, ma si apre alle scienze particolari, uniche in grado di garantire una comprensione sufficientemente profonda della realtà. Comprensione che, cogliendo fin da subito il binomio insito nel reale di materia e forma, ne palesa lo statuto di contraddittorietà latente e ne mette in luce la naturale inclinazione verso il mondo dello spirito.

L’Introduzione alla filosofia vale a Martinetti la cattedra universitaria: il 22 maggio 1906 vine nominato titolare di Filosofia teoretica presso l’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano. La prolusione inaugurale del suo magistero, “La funzione religiosa della filosofia”, ben sintetizza sia gli assunti metafisici fondamentali della sua opera maggiore sia i propositi dell’insegnamento, ovvero gli scopi e la funzione essenziale che lo studio della filosofia deve assolvere. Il rapporto tra filosofia e religione, riconosciuta come dimensione ultima della vita spirituale, viene qui risolto nel senso non di una netta separazione o di una subordinazione delle forme religiose alla verità della filosofia. Il sapere filosofico, coerentemente con quanto su detto, viene invece inserito nell’alveo dell’unico processo gnoseologico razionale: tanto la filosofia quanto la religione sono due attività simbolizzatrici e il loro statuto, dal punto di vista della costituzione dei loro linguaggi, è il medesimo. Entrambe mirano alla conoscenza attraverso la creazione di simboli, rinvianti a unità, a sintesi operate dalla ragione. I simboli della religione non hanno un compito diverso dai simboli della metafisica: il senso loro non si esaurisce nella loro appresentabilità, nel loro essere presenti alla coscienza; essi rimandano al contrario, tramite il loro contenuto – che custodisce al suo interno, si potrebbe dire, un rinvio implicito –, a un alcunché altro da sé. La loro funzione, se la loro natura di segni non viene corrotta, è sempre positiva; all’opposto se essi scadono nel dogma, perdono la loro caratteristica principale; i dogmi infatti non sono altro che concrezioni create dalla trasmissione dei simboli, sono simboli che, irrigiditi ed ipostatizzati, rinviano solo a se stessi, che esauriscono la propria dimensione di significanza nei termini del loro apparire.

La spoliazione della religione dai suoi elementi esteriori e la convinzione della necessità di un profondo rinnovamento religioso avvicinano Martinetti, in questi suoi primi anni di insegnamento milanese, agli esponenti locali del movimento modernista. Egli intrattiene buoni rapporti con Tommaso Gallarati Scotti, Guido Cagnola e Stefano Jacini; partecipa anche, con un suo scritto, “Il regno dello spirito” (prolusione all’anno accademico 1908-1909), a Il Rinnovamento, rivista milanese di riferimento per i modernisti. Le sue lezioni poi, si affollano, ben presto, non solo di studenti, ma di “un folto stuolo di ammiratori, amici e discepoli” della più varia estrazione sociale e di censo, attirati, secondo alcune testimonianze, dal tono vivido delle parole che giungevano dalla cattedra e dal penetrante ripensamento dei problemi filosofici esposti.

Gli appunti dei suoi primi corsi all’Accademia scientifico-letteraria, dedicati a Schopenhauer e Fichte, rivelano, oltre all’interesse per gli esiti della speculazione dei due filosofi tedeschi, il focalizzarsi dell’attenzione di Martinetti su una concezione della morale, non come scienza precettiva, ma come dimensione metafisica della vita umana. Anche gli appunti degli anni immediatamente successivi rivendicano, ancora una volta, il carattere e lo statuto eminentemente religioso della filosofia: essa non viene fagocitata e, di fatto, annullata all’interno dell’attività razionale, ma rappresenta il coronamento, la visione ultima di quella stessa attività. Temi questi che portano Martinetti alla graduale e fondamentale – per il resto della sua speculazione – riscoperta dell’opera di Kant, di cui sono testimoni l’edizione da lui curata dei Prolegomeni ed il saggio “Sul formalismo della morale kantiana”. Un “ritorno” alla riflessione sul pensiero del filosofo di Königsberg che si caratterizza, in opposizione a certe contemporanee interpretazioni metodologiche, per la netta lettura metafisica e per l’avvertimento della necessità di una considerazione integrale della produzione kantiana. Kant, per Martinetti, non ha fondato solo una teoria della conoscenza, o un’ontologia a essa strettamente legata; egli ha costruito una vera metafisica, che al suo interno ripropone lo schema dualistico tra materia e forma, tra immanente e trascendente, riconoscendo quest’ultimo come il centro di gravità dell’attività pratica umana. Allo stesso tempo, il grande merito di Kant è stato quello, secondo Martinetti, di non lasciarsi invischiare nelle maglie della speculazione metafisica trascendente, individuando nella forma della legge morale un simbolo di quella realtà trascendente: il discorso di Kant sarebbe pertanto un discorso sul trascendente, in termini tali da non scadere nei sogni di un visionario.

Con la pubblicazione, nel 1913, del saggio “Sul formalismo della morale kantiana”, si chiude il tentativo di risoluzione teoretica del problema indagato nell’Introduzione alla metafisica e si apre la stagione pratica di Martinetti. Sono già testimonianza della centralità del problema morale, nell’itinerario di pensiero del filosofo, le considerazioni alla fine della Grande Guerra, dove Martinetti vedeva il trionfo di una retorica nazionalista ed irrazionalista, che non avrebbe mancato di far sentire le proprie conseguenze già nel decennio successivo. Così il filosofo, in una testimonianza del 29 maggio 1918: “Vengo dall’assistere alla sfilata del Corteo per la ricorrenza del terzo anniversario di guerra. Musiche, fiori, grida, una grande eccitazione in tutti, specie nei ragazzi. Quale funesta educazione alla vanità e all’esibizionismo di un popolo già troppo vano per se stesso: che avrebbe anzi bisogno di essere educato al raccoglimento, al silenzio e alla serietà. Che non dire dei soldati feriti che gettavano fiori e mostravano al pubblico plaudente i moncherini, che non delle madri dei caduti che sono venute in corteo a sventolare al sole il proprio lutto! Dalla forza e dalla serietà non dovrebbe mai scompagnarsi una fierezza severa e pudibonda, aliena da ogni forma di carnevalate. E che non dire dei bambini e dei ragazzi che vengono così educati all’ostentazione, all’indisciplina, al sentire troppo altamente della propria importanza: mentre invece sarebbe più che mai necessario l’esatto opposto?”. La prima, concreta, iniziativa della nuova direzione martinettiana è, però, la fondazione, nel 1920, della Società di studi filosofici e religiosi, che si proponeva di radunare persone animate da un comune spirito religioso, libero da qualunque forma di vincolo dogmatico. L’obiettivo della Società era promuovere una riflessione sul piano spirituale, come contributo all’elaborazione di un’etica capace di smarcarsi dalla deriva scettica contemporanea, senza ripiombare in antichi formalismi. Due conferenze restano a sancire questo tentativo: “La psiche degli animali” e “Il compito della filosofia nell’ora presente”. Con la prima, Martinetti, convinto vegetariano, indicava come obiettivo morale l’inclusione del regno animale fra i soggetti senzienti, dunque portatori di diritti. La seconda appare come il documento programmatico del nuovo corso martinettiano, richiamando l’idea di distanziarsi da una filosofia immanente incapace di offrire un indirizzo etico alla società. Sul piano dell’elaborazione filosofica, sono gli anni della pubblicazione del Breviario spirituale (1922-23), opera divulgativa con cui il filosofo offre suggerimenti per la conduzione della vita pratica, proponendo l’immagine di uno sviluppo personale, che, dal controllo delle pulsioni primarie, procede per gradi di astrazione fino alla consapevolezza delle verità ultime. Un itinerario che definiamo senza indugi idealistico, ben riscontrabile anche negli studi spinoziani dello stesso periodo. Spinoza appare al filosofo canavesano la figura che più incarna un simile percorso di conoscenza, distinguendo fra tre gradi del sapere. La Sostanza spinoziana svolge, qui, la funzione della platonica Idea di Bene, proponendosi come ultima tappa di una conoscenza, che procede dal gradino più basso a quello più alto. Uno Spinoza platonico-kantiano da contrapporre all’immanenza hegeliana, che vedeva i suoi epigoni italiani in Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Ci è necessario disciplinare il nostro intelletto e scoprire la vera via, per la quale il medesimo possa felicemente procedere verso la conoscenza vera delle cose. L’aspirazione pratica verso il bene supremo è realizzata solo per mezzo della conoscenza: l’amore nasce dalla conoscenza e perciò soltanto la conoscenza del bene supremo può generare in noi l’amore che ci libera dall’amore delle cose corruttibili. Ora la conoscenza del bene supremo è condizionata dalla conoscenza filosofica delle cose e cioè dalla conoscenza della natura nostra e della natura della realtà in cui viviamo: perché solo dalla conoscenza del rapporto in cui l’uomo si trova con la realtà potremo apprendere quale sia il più alto bene che egli può raggiungere. L’attività fondamentale e immediata del filosofo sta quindi nella conoscenza del vero: l’opera della filosofia comincia con la preparazione metodica dell’intelletto alla conoscenza filosofica, con “l’emendazione dell’intelletto”.

Era inevitabile che la centralità del problema morale portasse Martinetti in rotta di collisione col regime fascista, instauratasi in Italia a partire dal ’22, l’anno della marcia su Roma. Va anzitutto detto che, a differenza di importanti liberali italiani come lo stesso Croce, Martinetti mantenne nei confronti di Mussolini e del suo movimento un parere fortemente critico fin dal suo emergere. La forza utilizzata come strumento di acquisizione del consenso, la violenza nei confronti degli avversari politici erano, a suoi occhi, segno del prevalere di un carattere nichilista, oppressivo dell’ideale di libertà a cui il filosofo era fortemente legato. Il primo momento di esplicita frizione fu il Congresso di filosofia del 1926, di cui era stata affidata l’organizzazione proprio a Martinetti. Il Congresso subì l’ostilità del mondo cattolico, a causa dell’invito del dissidente Ernesto Buonaiuti, e venne successivamente chiuso d’autorità su ordine del regime fascista. Ufficialmente, per motivi di ordine pubblico, più realisticamente a causa dell’indirizzo liberale di molti partecipanti. Il Ministero dell’Istruzione avviò provvedimenti disciplinari nei confronti di Martinetti. Si può dire che la risposta più compiuta agli eventi del 1926 fu la pubblicazione, per la Casa Editrice Lombarda, de La libertà (1928). Un testo, a nostro avviso, tra i più alti della riflessione filosofica novecentesca, non solo italiana. Preceduto, come usanza del tempo, da un’ampia trattazione storica, il libro tenta di elaborare un’immagine della libertà in contrasto con quella che Martinetti definisce “libertà d’indifferenza” e che considera l’immagine precipua del mondo contemporaneo. Un’immagine che fa coincidere la libertà con la possibilità di soddisfare l’impulso del momento. Per il filosofo canavesano, la libertà coincide con l’autonomia della coscienza, da conquistarsi attraverso il contatto con i grandi valori della Giustizia, della Bellezza e della Bontà trasversali a tutte le epoche. Solo prendendo coscienza di una Giustizia capace di trascendere i diversi periodi storici, l’individuo può essere libero rispetto ai condizionamenti del proprio tempo. Il testo influenzerà un’intera generazione di studenti, a cominciare da figure come Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio. La rottura definitiva fra Martinetti ed il regime avverrà tre anni più tardi, quando Mussolini impose ai professori universitari un giuramento al partito fascista, che andava a sommarsi al giuramento nei confronti del Re. Se quest’ultimo poteva essere ammesso in quanto super partes, impossibile accettare l’imposizione mussoliniana, subordinando la propria coscienza alle esigenze faziose di un partito, qualunque esso fosse ed ancor di più se repressore ed anti-libertario. Le parole con cui Martinetti risponde alla richiesta governativa restano uno dei simboli più alti della sua fermezza etica e morale: “Ho sempre diretto la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere. Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto, che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a mentire con essa tutta la mia vita; l’E. V. riconoscerà che questo non è possibile”. Lasciata la cattedra, Martinetti si ritira nella propria casa di Spineto, frazione di Castellammonte, nel Canavese. Manterrà la frequentazione con allievi ed amici e non mancherà di tornare più volte a Milano. Gli ultimi sono soprattutto gli anni degli studi su Gesù di Nazareth, nel quale vedeva l’araldo della libertà di coscienza, capace di emanciparsi da qualunque morale formale, come Martinetti interpretava, su chiare basi cristiane, quella ebraica. Nel 1934 uscirà Gesù Cristo e il Cristianesimo, che inaugura gli studi cristologici dell’autore, completati qualche anno dopo con un bel commento ai Vangeli sinottici (Il Vangelo, 1936). Il Gesù di Martinetti si fonda su due travi portanti, consequenziali fra loro: la demitizzazione della figura di Cristo e la rivalutazione della sua ebraicità. Il mito del figlio di Dio, diffuso nel contesto culturale della nascente religione cristiana, è, agli occhi martinettiani, un racconto di natura popolare, che nulla ha a che fare con la sua predicazione. Gesù è un ebreo, che universalizza l’ideale ebraico di Giustizia, aprendo all’immagine di una fratellanza universale. Coloro, come Agostino, che hanno dogmatizzato il suo messaggio, ne hanno tradito la visione originaria. La storia del cristianesimo si divide in un filone istituzionale ed uno spirituale, di cui fanno parte le figure messe ai margini nella storia della Chiesa. Il libro sarà uno degli ultimi messo all’indice dal tribunale ecclesiastico. Gli anni’ 30 dell’attività martinettiana sono anche caratterizzati dall’impegno nella Rivista di filosofia. Rivista eclettica nel panorama culturale italiano, attorno a cui si radunavano allievi diretti come Antonio Banfi, intellettuali che avevano assunto Martinetti come esempio morale (Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat), intellettuali antifascisti come Luigi Fossati, Gioele Solari, Cesare Goretti.

Piero Martinetti morirà nel 1943 a Spineto, fra le sue amate montagne. L’esempio morale da lui rappresentato non deve diminuire il valore teoretico della sua riflessione. Se si osserva la filosofia italiana della seconda metà del secolo scorso, si scopre che l’insegnamento del filosofo canavesano ha influenzato molte delle personalità filosofiche di maggiore originalità. Si può dire che Martinetti stia alla base dei due poli filosofici di Milano e Torino, che hanno più di tutti avuto il merito di sprovincializzare la filosofia italiana, mettendola a contatto con i grandi indirizzi filosofici europei. Autori come Antonio Banfi (e la prestigiosa scuola da lui derivata), Luigi Pareyson e Norberto Bobbio, solo per citare i più illustri, hanno sempre conservato un debito di riconoscenza verso il maestro, continuando quel lavoro di importazione intellettuale iniziato da questo filosofo rivalutato dalla critica degli ultimi due decenni.