Su Dino Formaggio

Nella personalità e nel pensiero di Dino Formaggio centrale è il problema del fare. La sua vita è incentrata sul fare: dal breve tempo del lavoro dipendente al lavoro artistico, dal lavoro didattico a quello teorico.

E la sua estetica è un’estetica del fare. In un suo primo e più specifico senso, con ampie ricadute teoriche, il fare si lega alla tecnica artistica, alle materie con cui l’arte si misura, alla durezza del reale con cui si scontra. La Fenomenologia della tecnica artistica è l’opera teorica in cui con maggior incisività si pone il problema del fare; Arte come comunicazione ne è il sintomatico soprattitolo. È del 1953, ma riprende la tesi di laurea del 1938, cui diede un sensibile impulso (fornendo importanti contributi) Antonia Pozzi. Del termine “fenomenologia” Formaggio – che avrebbe conosciuto solo più tardi Husserl, anche sulla scia di Enzo Paci – è debitore a Banfi: quello fenomenologico è un momento imprescindibile del modo di far estetica da lui teorizzato; sul piano concreto ne sono un ottimo esempio gli appunti che dedicò all’esecuzione musicale. Nel testo di Formaggio fenomenologia indica un modo di procedere che individua da diversi punti di vista i piani molteplici di cui si intesse  il complesso fenomeno della tecnica artistica e della riflessione su di essa: filosofico (in costante polemica con le estetiche del neoidealismo), esistenziale (naturale, psicologico, sociologico, culturale), epistemologico (con grande attenzione all’estetica francese e al movimento della Allgemeine Kunstwissenshaft di Max Dessoir e Emil Utitz); viene infine rilevato dinamicamente un ciclo fenomenologico della tecnica artistica, nella sua connessione coi materiali di cui l’arte si avvale.

Da quest’opera derivano per vie diverse i libri successivi, tra cui segnalo innanzitutto il secondo lavoro di rilievo, che ha per titolo L’idea di artisticità, del 1962; dove l’idea è idea di un’arte considerata dal punto di vista del fare, appunto. Il termine idea (nel suo senso di idea trascendentale) è mutuato da Banfi, il quale però teorizza di un’idea che ha le proprie radici nell’intuire. Non a caso Formaggio all’idea banfiana di esteticità (che per lui ha in sé un che di contemplativo) sostituisce, come principio atto a render conto della realtà estetico-artistica, l’idea di artisticità, che implica qualcosa di fattivo. In L’idea di artisticità restano infine significative le pagine dedicate al problema della “morte dell’arte”, considerato nella sua connessione con “la genesi della moderna idea di artisticità”; e si delinea nettamente la separazione dell’estetica dalle poetiche, dalla critica d’arte e dalla storia dell’arte.

Il fare affonda le proprie radici nel modo in cui Formaggio vive il mondo dei sensi. Contrariamente a quanto avviene in Croce, egli distingue un’estetica come teoria del conoscere sensibile da un’estetica come teoria dell’arte; ma questo non toglie che ne scorga anche gli intrecci. Per lui il mondo sensibile, soprattutto nella sua modalità di mondo visibile, esiste, in senso forte; e lì ha le sue radici il mondo dell’arte. Non a caso nella piena maturità del suo pensiero la sua estetica si esprime come una filosofia del corpo, come testimonia tra i suoi libri soprattutto Arte (1973)

Decisivo tuttavia è che Formaggio appartiene al novero di coloro per cui il vedere, l’ascoltare, l’esperire col corpo non lasciano paghi di sé; a tutto questo, che compendiava sotto il termine di estetismo, era allergico. L’esperienza dei sensi era per lui un nucleo di energia che si irradia oltre se stesso, in un silenzio denso di risonanze, che cerca compimenti. Per lui nessun raccoglimento basta a sé: deborda da sé e reca implicita la richiesta di segni atti a esprimersi, o a interrogare per capire meglio. Coinvolge l’impegno di riprendere fattivamente le cose, di ripensarle, di costruirle – fino alle forme di conoscenza più approfondite e alle esecuzioni professionali e artistiche più alte.

Un primo ambito in cui la vita sensibile esplica le proprie potenzialità per Formaggio è l’attività didattica, per lui ai vertici del vivo “fare” che gli appartiene. Per l’insegnamento aveva una vera vocazione, una disposizione naturale a lungo coltivata, a livelli scolatici differenti, dalle scuole elementari al liceo all’università; al liceo per quanto ne so si è esplicata nel modo più compiuto.

Dalle sue lezioni traspariva l’idea del lavoro culturale non come dovere imposto, ma come qualcosa di coinvolgente, di capace di suscitare un amore, di agire come una promessa di vita. Anche per Banfi lo studio era intensificazione della vita, non fatica insensata. Per Formaggio la tecnica artistica è tecnica qualificata, felice nei suoi esiti, ha capacità di dar gioia.

Era vivo nelle lezioni di Formaggio un modo di intendere il lavoro culturale come confronto ma insieme come solidarietà; mai come mera competizione. Le lezioni erano in primo luogo partecipazione; ricordo ancora con riconoscenza lo spazio che lasciavano (e erano le uniche allora) a ciò che chiamava “discussione”. Un momento tra i più coinvolgenti (ed altamente educativi, ritengo tuttora) era il libero scambio delle idee tra gli studenti, e con l’insegnante; e la dialettica tra le opinioni che ne scaturiva. Gli allievi non venivano esclusi da una partecipazione attiva, che veniva loro spontanea, per la loro ovvia “impreparazione”. Non ne risultava inibita la loro esigenza di domandare, di chiarire e di mettersi alla prova nel rapporto con altri. Un’autentica passione – genuinamente filosofica – per il dialogo viveva anche negli incontri al di fuori delle aule scolastiche: l’idea di una verità che scaturisse da un confronto vivo, e di una ricerca che agisse anche come fermento socializzante, gli apparteneva.

Il suo insegnamento  a sua volta era un invito alla visione, all’ascolto, alla lettura. Frequentare mostre e monumenti rientrava tra i compiti didattici che giustamente si proponeva; ricordo l’entusiasmo che ci metteva e l’impulso a partecipare che trasmetteva.  A lui devo la scoperta, volendo esemplificare, non solo di Mondrian ma anche dell’Abbazia di Chiaravalle – un mito per lui (anche per i suoi noti legami con Antonia Pozzi), e di riflesso anche per noi.  Faceva nascere la voglia di guardare spettacoli naturali non meno che artistici. Ma anche questo “vedere” non era fine a sé; doveva costruirsi in esperienza di vita.

Il fare si esercitava poi per lui come creatività artistica, nella pittura, nella scultura, nella poesia (di cui pur esiste la raccolta in suo volumetto intitolato D’albe e di sogni , del 2004). Egli stesso mi confessò un giorno, tanti anni fa, che amava l’arte. Non era neppure il caso di dirlo, lo si vedeva bene. Ma fissandomi con intenzione aggiunse, increspando un poco il tono della voce: “fare l’arte”. Della stessa fruizione artistica aveva una visione non contemplativa ma attiva, che si riversava in un fare.

Il gusto di Formaggio, insisto, la sua passione, va verso l’agire, più che non verso il contemplare; fin nella sua Fenomenologia prende nettamente le distanze da ogni atteggiamento estetico-estatico, da ogni “estetismo”, che per lui vuol dire passività, abbandono ricettivo, nella fruizione dell’arte.

La figura di Formaggio è impregnata di una personale creatività artistica, ma insieme rivela un intero modo di collocarsi nel mondo dell’arte. Questo è palese in controluce anche negli studi coinvolgenti che dedicò a grandi artisti, da Piero della Francesca a Michelangelo, da Tintoretto a Goya a Van Gogh a Picasso e a Klee.

Fin da giovane dipingeva: acquarelli dapprima; ricordo poi che collaborò (con Tomea) a un affresco nella chiesa di Marzio; più tardi rifece quadri di autori che amava (personalmente ricordo un Kandinskij), e anche sculture a lui care (lo Scriba del Louvre). Segno anche questo della sua inclinazione di fondo: vedere, ma non come fine a sé, in senso contemplativo. Vedere per fare piuttosto o, meglio, “vedere facendo” era la consegna per lui.

Per tutta la vita costruì oggetti d’arte; da ultimo assemblaggi di objects trouvés, da cui scaturivano significati, figure inattese, come il Prometeo, i Don Chisciotte, i girasoli, più volte tentati. E nel “fare” certo rientra anche la cura che aveva nello scegliere i colori di una parete, nel costruire o adattare mobili, nel dar forma a un’abitazione: ricordo l’appartamento, non suo, ma adattato per lui dietro sue indicazioni, a Bresseo; oltre che naturalmente la sua casa a Illasi. Dietro sua indicazione ho potuto acquistare vecchi mobili, i più preziosi che posseggo. I musei fondati da Formaggio a Teolo e a Vespolate manifestano il suo gusto nell’organizzare uno spazio, la sua padronanza della logica espositiva. Anche questo contiene aspetti creativi da non trascurare.

In nessun caso può essere destituita di rilevanza, nell’ottica di Formaggio, la necessità di chiarire a se stessi, a qualsiasi livello, i termini di un vedere, di un ricreare, di un interpretare. Non era affatto secondario per lui pensare l’arte; difendeva – sulla scia di Banfi – la “teoreticità” del discorso estetico-filosofico con decisione (anche contro certi modi pragmatici di pensare l’arte); del suo impegno teorico testimoniano le sue numerose pubblicazioni. Aborriva tuttavia ogni considerazione astratta, ogni teoria arida, ogni impegno meramente intellettualistico che non avesse radici nel corpo.

La sua concezione dell’arte,  la sua stessa teorizzazione dell’arte, la intendeva come qualcosa che dal fare trae alimento, nel fare deve verificarsi e trovare un compimento di sé. Questo la distingueva dalla maggior parte delle estetiche fenomenologiche, per lo più impegnate sul fronte della fruizione, o dell’oggetto, estetici. Per lui l’istinto del teorizzare aveva le sue radici, e continuamente tornava, alla carne dell’arte, in senso attivo.


Con questo post di Gabriele Scaramuzza, vogliamo celebrare l’istituzione, nel marzo 2017, del Fondo Dino Formaggio, presso la Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Sull’opera artistica di Formaggio, si veda anche il Museo di Arte Contemporanea a lui dedicato, a Teolo (PD) — La Redazione

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