Guido D. Neri – Immagini del “dopo”. Mondo naturale, Europa, cosmopolitismo

[Materiali di Estetica, N. 3,1, 2016, pp. 119-122. Riprodotto per gentile concessione dell’autore]

1. Riprendo il titolo da un saggio di Guido Neri del 1982 e lo sviluppo in movenze, finalità e contenuti man mano personali e responsabilmente personali. È la mia scelta di dire qualcosa a chi mi ascolta prendendo le mosse da pagine di Guido e quindi da un dichiarato debito che certo non finisce qui così, anche perché è nato da un incontro di cinquanta (e più) anni fa.
Il saggio è del 1982 e “dopo” stava a indicare le prospettive della Polonia “dopo” (ossia successivamente, in conseguenza di…) le convulsioni e repressioni e normalizzazioni degli anni Sessanta e Settanta nell’Est – e specificamente nella Polonia di Solidarność e del “socialismo stratificato” (per riprendere un altro titolo di Neri, del 1974).
Ma vi è anche un altro “dopo”, per Neri – ed è quando le normalizzazioni e le tentate ristrutturazioni nell’URSS di Gorbaciov non reggono e si dissolve l’intero mondo dell’Est o del socialismo che si era autocertificato come “realizzato”.

Prendiamo allora proprio lo scritto ultimo, “quegli appunti di una conferenza che Guido non poté tenere”, La fenomenologia (Cfr. per questa e le precedenti citazioni G.D. Neri, Il sensibile la storia l’arte. Scritti 1957-2001, ombre corte, Verona 2003, in particolare pp. 171-183. Si veda soprattutto L. Fausti, Guido Davide Neri tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Unicopli, Mi- lano 2010, p. 122-124).

 

2. È l’ultimo ed è uno scritto aperto: ha due conclusioni. Conclusioni dogmatiche o apodittiche non erano nelle corde di Neri ma questo ha una caratteristica propria: ha due conclusioni, esposte in una forma quasi dilemmatica.
Intanto, inizia dal suo apprendistato con Banfi e con Paci. È un ritrattino a puntasecca, da antologia, sui suoi maestri e filosofi magistrali, che procede animandosi verso un pittorismo alla veneta, per contrasti cromatici. L’importante però è che sbocca in una conclusione a forcella ossia a due conclusioni: semplificando, una pessimistica una aperturistica.
Così dieci anni “dopo” quel saggio con le conclusioni che vedremo (e a dieci anni dalle Twin Towers e dagli attentati di Madrid e Londra e a tre anni da Lehmann Brothers e a pochi mesi dalla strage di Oslo/isola di Utoya), abbiamo una duplicità, che io intendo nella maniera seguente:

a. le scienze e la tecnologia vivono secondo il mondo naturale ossia prima e al netto dello stupore/epoché, anzi prolungano l’atteggiamento naturale tramite protesi, figure geometriche e formule matematiche, che “ricoprono”, sono un maquillage coprente cioè si sono riprese la rivincita con danno di ogni progetto storico – là dove la “sorpresa” era (e dovrebbe restare) l’interrogazione sul senso delle cose, sul senso della storia;

b. “seconda versione della conclusione” (G.D. Neri, Il sensibile la storia l’arte. Scritti 1957-2001, cit., p. 182. Materiali di Estetica, N. 3,1, 2016, p. 121): tornare sull’Europa dopo il dibattito generato a partire dall’89…. cioè circa vent’anni fa… ossia alla sua miglior eredità: l’esigenza di far convivere l’atteggiamento naturale con la disponibilità a prenderne le distanze, è a dire “a quella epoché che ci sottrae per un istante al commercio immediato con il mondo ma che ci apre alla dimensione della verità”.

3. Stiamo con la seconda versione: una cultura filosofica che pratichi l’epoché sulle “naturalità” del dopo ’89 (e sottolineo dopo) sino al 2008-2010 e oggi. Dopo il nichilismo di ritorno delle grandi metafisiche, l’ideologia monetarista, l’apparente contrazione di spazi e di tempi nella mondializzazione.
Insomma l’epica della globalizzazione ma anche la sua damnatio ossia il capitale finanziario apparentemente indomabile come era Anteo, tale cioè da sembrare di trar forza dal suo stesso rovinare al suolo. Ma altrettanto capace di produrre e riprodurre timori, fobie/xenofobia, chiusure locali; quindi in conclusione inquietudini, smarrimenti del soggetto e delle relazioni tra soggetti e dei soggetti con la comunità.
Una cultura filosofica dunque che rilegga e riproponga il soggetto della filosofia, ossia la persona “in carne e ossa”, come abbiamo appreso dai nostri maestri, e il suo piano o campo l’Europa. A questo punto non soltanto l’Europa che è in Europa e l’Europa che è negli altri continenti nelle forme della ingegneria dell’hardware e del software.
Ma anche le persone extraeuropee che vivono in Europa ovvero la interculturalità (Giangiorgio Pasqualotto, Giuseppe Cacciatore) tra l’Europa e l’intreccio Oriente/Occidente. La interculturalità presuppone e implica non il multiculturalismo ma le pluralità culturali di un’unica umanità. Questo è tanto più vero con le drammatiche dinamiche dei migranti.
Il filosofo – abbiamo imparato – è il funzionario dell’umanità. È quindi cittadino del e nel mondo di tutti gli uomini. Ogni essere umano ha cittadinanza in ogni polis del mondo e ogni polis è il mondo ossia è un cosmo.
È per questo che l’immagine del “dopo” (dopo questo oggi…) con cui chiudo questa mia riflessione iniziata dopo (e da) Guido, è “cosmopolitismo”. Cosmopolitismo ha una lunga storia; oggi, è “la circolazione delle differenze” (F. Papi, Voci dal tempo difficile, Ibis, Como-Pavia 2008, p. 58).
Non è semplice e non solo per gli ostacoli esterni (e, aggiungo, interni-esterni: a volte il “nemico” è un alibi). Ma perché bisogna imparare a “vivere nella problematicità” (Patočka, citato da G.D. Neri, Il sensibile la storia l’arte. Scritti 1957-2001, cit., p. 183).

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